Le chiamano Tre Cime. Perché non «Tredici Cime»? Questo è, in realtà, il numero delle vette, più o meno appariscenti, che compongono la grande struttura dolomitica. La più famosa e celebrata architettura naturale del mondo assieme al Cervino e a qualche altra stranezza rocciosa del Creato. Son tredici e son belle. Da ovest a est: Torre Lavaredo, Croda del Rifugio, Croda di Mezzo, Sasso di Landro, il Mulo, Croda Longéres, Torre Comici, Croda degli Alpini, Cima Ovest, Cima Grande, Cima Piccola, Punta di Frida, Cima Piccolissima. C’è anche una torre sperduta fra i colossi della Ovest e della Grande, ma considerarla vertice fra i vertici potrebbe apparire azzardato. Le Tredici Cime di Lavarédo, dunque!
Non avrebbe cambiato nulla, questo toponimo immaginario. Perché quelle che emergono veramente dal marasma naturale (che caratterizza qualsiasi complesso dolomitico) sono tre. E tre resteranno. Le si guardi da dove si vuole queste vele immense e lapidarie, spiegate al vento del nord, sono sempre tre! Il numero perfetto. Le altre dieci sono ammassi informi, avancorpi senza storia, macerie primordiali abbandonate e disperatamente avvinghiate alle sorelle maggiori. Ripescate, inventate, salite da alpinisti che cercavano un grammo di gloria battezzando vette secondarie, ma inserite in un contesto talmente leggendario e unico da garantire quei cinque o sei minuti di celebrità effimera. Gli uomini son fatti così.
Le Tre Cime di Lavaredo anche. Da sempre… Viste da nord, si presentano come tre giganteschi obelischi tagliati di netto da una scure immensa usata con furia e forza inaudita da uno di quei giganti trogloditi che hanno riempito la fantasia delle giovani età. Un gigante architetto. Perché ha saputo creare, attorno a queste cime, il vuoto assoluto, scalpellando, togliendo, raschiando tutto quello che avrebbe potuto danneggiare l’opera finale. Ammassi enormi di roccia giacciono sul fondale. Segue un piedestallo sassoso e magramente erboso. Quindi una fiumana di ghiaie – la Grava Longa – va a lambire le pareti vertiginose, dando l’impressione di «sputarle» verso l’alto. È la classica veduta da nord, da est, da ovest.
A sud le rocce sono più comuni, più a portata d’uomo, uguali a quelle di tante altre montagne e si elevano senza l’arditezza e l’esuberanza del versante opposto. L’originalità delle pareti nord, dunque, sta proprio nell’unicità dello slancio verticale e solitario. Nel taglio netto fra materia e spazio. Nel vento sibilante fra le piccole forcelle. Nel dignitoso stacco fra le rocce e le folle chiassose. Nell’attrazione fatale e misteriosa che i tre menhir sanno carpire.
Pare che tutto debba convergere sulle enormi protuberanze che l’evoluzione geologica ha felicemente depositato in quest’alveo alpino. Non c’è sguardo per alcuno se non per loro. Ed è lo stesso fenomeno che si prova alla vista delle tre maggiori piramidi d’Egitto. O delle tre Torri del Vajolet. O delle «Tre Grazie» del Canova. Magia del tre! E a sud? Qui il discorso si fa triste e se non fosse per quel senso di civiltà che deve avere chi usa i mezzi di comunicazione (e una guida escursionistica «è» un mezzo di comunicazione), verrebbe voglia di recitare, oltre al classico ed azzeccato de profundis, anche la serie completa ed aggiornata delle beate litanie.
Una strada asfaltata congiunge il Lago di Misurina alle Tre Cime. Per percorrerla si paga un pedaggio che è più «salato» delle acque del Mar Morto. Oppure si sale a piedi respirando gli olezzi nefasti della benzina (con o senza piombo, tanto, è lo stesso…). Finita la strada, ecco il rifugio immenso. Un alveare di cemento con self-service incorporato; e i souvenir alla «profumi e balocchi», e i piatti-bicchieri-posate di plastica; e i cessi con le finestre bloccate; e le camere raggiungibili con gli scarponi; una vera e rarissima comodità, questa, non riscontrabile altrove.
Poi la gente si lamenta… A difesa della gestione, tutto sommato buona, va detto che il self-service è variamente ben fornito e che i piatti di plastica, seppur ineleganti, sono più sicuri… (una ordinanza del Sindaco di Auronzo proibisce l’uso delle acque, per motivi igienici). Davanti, di dietro, di fianco, di sopra, di sotto al rifugio è tutto un parcheggio per auto, pullman, camper, roulotte, moto, biciclette (qui è arrivato pure il Giro d’Italia), mountain bike, «vespa», «ape»… Calabroni, no. Son morti tutti. Avvelenati dall’ossido di carbonio! E li parcheggiano lassù, questi mezzi scemi (i mezzi, ovviamente, non gli autisti), fin sotto le pareti meridionali che una volta scaricavano sassi e fiumi di sabbia e oggi non più… Chissà perché! è cambiato tutto anche nel mondo delle rocce…
Allora, come vorremmo ritornare ai tempi dei pionieri quando solo una mulattiera portava fin quassù e la gente era quella del pascolo e della mungitura e non gridava, neppure agli animali. Come vorremmo immaginare le Tre Cime allo «stato brado», avvolte solo dall’eterno canto del vento e dalle candide nuvole della breve estate. Come vorremmo che tutto ripiombasse nella solitudine dei bei tempi andati e il luogo ritornasse ad essere il santuario più pacifico e bello delle Alpi. «Come vorremmo che tu la smettessi di fantasticare», tuona la voce della coscienza! Ed ha ragione. Quello che è stato è stato e nulla toglie alla bellezza soave delle Tre Cime. Non è colpa loro (o della gente) se oggi vi si giunge in auto e la sacralità del luogo è un po’ profanata. Il bello è visibile ovunque esso esista, anche nella splendida Piazza San Marco gremita di folla.
Basta scostarsi, estraniarsi. Con la mente e con il cuore. E si resta in perfetta solitudine, nonostante il popolo vociante… Le Tre Cime di Lavaredo e dintorni vanno visitate e percorse con questo spirito. Senza l’egoistica pretesa del possesso individuale, ma con la consapevolezza che è un bene preziosissimo, un tesoro unico che tutta l’umanità ha diritto di godere. Con rispetto , ovviamente. Così facendo, avremo percorso una tappa indimenticabile nel lungo cammino verso la conoscenza degli angoli più belli e remunerativi del magico mondo delle montagne.
Italo Zandonella Callegher